...poi in mezzo a carte notarili compare una testimonianza sicuramente in italiano:
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti»
Marzo 960: Placito cassinese di Capua
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
Marzo 963: Placito cassinese di Sessa
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.
Luglio 963: Placito cassinese di Teano
Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie.
Ottobre 963: Placito cassinese di Teano
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». Con questa formula, nel marzo del 960 fu risolta una lite tra il monastero di Montecassino ed un uomo di Aquino. Tre testimoni, comparsi a Capua davanti al giudice Arechisi, tenendo una carta in cui erano segnati i confini del luogo discusso e toccandola con l'altra mano, deposero a favore del monastero. Vera o fittizia che sia stata la lite (è sembrato, infatti, a taluni che fosse preoccupazione dall'abate avere una carta notarile in cui si dichiarasse il possesso trentennale di quelle terre), il documento di Arechisi registra l'atto di nascita della lingua italiana scritta, pur se in una varietà dialettale, in cui il tratto più appariscente è la sparizione dell'appendice labio-velare u in ko (latino quod), kelle, ki (italiano quelle, qui; ma resta inque).
La coscienza che il volgare fosse lingua autonoma stava conquistando l'Italia; infatti, dopo il 960, la mappa geografica delle testimonianze incomincia a registrare punti nuovi, sui quali si appoggia la storia della lingua italiana. Formule simili a quelle della carta capuana furono trascritte nel 963 a Sessa Aurunca e poi a Teano. Parole isolate e stilemi si ritrovano negli scritti dei dotti e, molto più, dei notai. Non mancano, inoltre, i glossari, a volte di poche parole, in cui i singoli lemmi volgari sono affiancati dalla corrispondente traduzione (latina, greca).
La certezza della diffusa nuova coscienza linguistica ci viene dall'aneddoto narrato da Gunzo di Novara. Nel 965, di passaggio a San Gallo, egli, maestro e grammatico di fama, mentre seduto a mensa chiacchierava, fece un errore, «ponendo videlicet accusativum pro ablativo». Un monachetto subito lo assalì, riprendendolo aspramente e giudicandolo degno della sferza, molto in uso allora nelle scuole. Ritornato in patria, Gunzo scrisse una lettera ai monaci di Reichenau, quasi per giustificarsi dell’errore, accumulando pagine di classici che avevano usato un caso per l'altro, e, giustificazione estrema, esclamò: «Falso putavit S. Galli monachus me remotum a scientia grammaticae artis, licet aliquando retarder usu nostrae vulgaris linguae, quae latinitati vicina est»: il suo errore era stato causato dall'uso quotidiano del volgare, lingua simile al latino.
L'uso del volgare, inoltre, è espressione di lode sull'epitaffio di Gregorio V (999): «Usus francisca, vulgari et voce latina; instituit populos eloquio triplici».
L'Iscrizione della catacomba di Commodilla
«Non dicere ille secrita a.bboce»
Col passare del tempo, in tutte le parti d'Italia vi sono documenti e testi scritti interamente o parzialmente in volgare. Fra queste testimonianze: L'Iscrizione della catacomba di Commodilla in Roma (metà del secolo IX). È un graffito: «Non dicere ille secrita a.bboce» [«Non dire quelle cose segrete a voce (alta)»]. Con questa formula si invitava il celebrante a non recitare a voce alta quelle preghiere della messa, dettesecrete. Dal punto di vista linguistico si noti, oltre alla forma dell'imperativo negativo(non + infinito) diversa da quella latina (ne diceas, con congiuntivo esortativo), dicere, volgare a Roma, dove s'è usato in modo esclusivo per tutto il medioevo; ille con valore di articolo femminile plurale e secrita, non neutro, ma un plurale in -a (l'articolo sarebbe la conferma); a-bboce, con raddoppiamento fonosintattico e betacismo.
Postilla amatiana
«Ista cartula est de caput coctu. /
Ille adiuvet de illl[u] rebottu /
qui mal consiliu li mise in corpu».
Ille adiuvet de illl[u] rebottu /
qui mal consiliu li mise in corpu».
La Postilla amiatina (San Salvatore di Monte Amiata, non molto distante da Grosseto; 1087): «Ista cartula est de caput coctu. / Ille adiuvet de illl[u] rebottu / qui mal consiliu li mise in corpu». Tre versi (forse endecasillabi), con assonanza, misti di latino e volgare, scritti dallo stesso notaio che redasse la cessione dei beni fatta da Micciarello e la moglie, Gualdrada, in favore dell'abbazia di San Salvatore. Controverso è il significato della postilla. La donazione sarebbe stata fatta per evitare guai, e magari sortilegi (la Postilla sembra un breve, un talismano), che un mal consiliu di rebott/u/ (il diavolo? un avversario? un «consigliere fraudolento»?) poteva procurare a caput coctu (o Caput-coctu «testa-cotta», evidente soprannome). Qualcuno pensa anche ad una donazione fittizia, per evitare aggravi fiscali (il «mal consiglio» sarebbe dunque la frode). Per la lingua, si possono mettere in evidenza almeno le finali in -u.
L'Iscrizione di San Clemente (fine XI secolo)
"Traite. Fili dele pute, tràite"
Si tratta di un affresco, che si trova nella Basilica di San Clemente a Roma. Due personaggi, Albertello e Gosmari, trascinano una colonna, mentre un terzo, Carboncello, la spinge; Sisinnio, un patrizio romano, sta in atto di chi comanda. Accanto ai protagonisti sono scritte brevi frasi. La colonna tirata ricorda il miracolo avvenuto durante il martirio del Santo, come riporta la Passio. San Clemente si esprime in latino, quasi con le parole della tradizione, mentre gli altri personaggi usano il volgare: «Sisinium: "Fili dele pute, tràite". Gosmarius: "Albertel, trai". "Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle". (San Clemente:) "Duritia(m) cordis vestri(s), saxa traere meruistis"». Le parole di Clemente spiegano perché egli è rappresentato con un sasso. Già nel latino si osservi la necessità di espunzione in duritiam e vestris, e la mancanza dell'h in trahere (e si dovrebbe anche trovare Sisinius, al nominativo), segno che chi scrisse aveva scarsa conoscenza del latino. Per lo stile, nelle frasi in volgare, si rilevi il realistico insulto di Sisinnio, che parla non da patrizio ma da vero popolano (nonostante l'affresco sia in una chiesa e l'argomento sacro); e si noti ancora Albertel, con forma troncata com'è nell'uso parlato; e, inCarvoncelle, la B > v, oltre alla -e finale (non vocativo).
La Testimonianza di Travale
«Guaita, guaita male; non mangia ma mezo pane».
La Testimonianza di Travale (oggi in provincia di Grosseto; 6 luglio 1158): anche questo testo si trova in un documento giudiziario, scritto in latino; in esso appare la seguente frasetta, pronunciata da Malfredo: «Guaita, guaita male; non mangia ma mezo pane». Ed anche in questo testo le interpretazioni sono varie: «Guardia, fa' la guardia male! Io non mangiai mai mezzo pane», come un invito imperativo, rivolto a se stesso (questa è l'ipotesi più accettata); oppure: «La guardia fa male la guardia. Io ecc.», come narrativo. Qualche studioso ha pensato che il testo possa essere l'inizio di un ritmo giullaresco; qualcuno ancora che Malfredo abbia camuffato il proprio disagio sotto quelle parole, per far capire ai signori che non faceva volentieri, data la sua estrema indigenza, il servizio di guardia; tanto che, capita l'antifona, egli venne dispensato dal servizio. In poche parole: Malfredo era obbligato al servizio di guardia alla corte di Travale, ma era talmente povero che faceva male il suo turno, perché affamato.
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