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Lezione VII - I primi ritmi della letteratura italiana


Salva lo vescovo senato, lo mellior c’unque sia nato,
ce [dall’]ora fue sagrato tutt’allumina-l cericato.
Né Fisolaco né Cato non fue sì ringratïato,
e-l pap’ à llui [dal destro l]ato per suo drudo plu privato.
5 Suo gentile vescovato ben’è cresciuto e melliorato.

L’apostolico romano lo [sagroe in] Laterano.
San Benedetto e san Germano -l destinoe d’esser sovrano
de tutto regno cristïano: peroe venne da Lornano,
del paradìs dilitïano. Çà non fue questo villano!
10 Da ce-l mondo fue pagano non ci so tal marchisciano.
Se mi dà caval balçano, monsteroll’ al bon toscano,
a lo vescovo volterrano, cui bendicente bascio mano.

Lo vescovo Grimaldesco, cento cavaler a desco
d’in un tempo no lli ’ncrescono, ançi plaçono e abelliscono.
15 Né latino né tedesco, né lonbardo né fran[ç]esco
suo mellior re no ’nvestisco, tant’è di bontade fresco.
A lui ne vo [per di]sparesco corridor caval pultresco.
Li arcador’ ne vann’a tresco; di paura sbaguttisco.
Rispos’ e disse latinesco: “Stern’ett i!” et i’ nutiaresco
20 di lui bendicer non finisco mentre ’n questo mondo tresco.


II Ritmo bellunese, datato intorno al 1193, ma tramandatoci da un codice cinque­centesco, è formato da quattro versi di una cronaca dell'occupazione del castello di Mirabello da parte delle truppe di Belluno e Feltre ai danni di Treviso. Altri brevi documenti di una lingua di più ampio respiro, provenienti sicuramente dal mondo giullaresco, sono il Ritmo laurenziano (1157), il Ritmo su Sant’Alessio e il Ritmo cas­sinese. II primo, conservato in un unico manoscritto presso la Biblioteca Medicea Laurenziana, è stato trascritto per la prima volta da Angelo Maria Bandini a Firen­ze nel 1777. Vede protagonista un giullare che loda alcuni alti prelati per ottenere doni da loro, primo fra tutti un cavallo. La struttura metrica e retorica dimostrano la buona cultura del giullare compositore, rimandando direttamente alla poesia d'oltralpe.
Gli altri due componimenti sono accomunati dall'imitazione dello stile giullaresco applicato in questo caso ad argo­mento religioso. II Ritmo cassinese, custodito in un manoscritto dell'XI secolo del­l’Abbazia di Montecassino, è stato pubblicato per la prima volta a Napoli nel 1791, mentre solo nel secolo successivo sono iniziati seri tentativi di una sua edizione critica. Si tratta del dialogo tra un monaco occidentale e uno orientale, in cui sono contrapposti I piaceri terreni alla vita dello spirito. II Ritmo su Sant’Alessio, inve­ce, è stato trascritto da due differenti copisti su un manoscritto conservato pres­so la Biblioteca Comunale dl Ascoli Piceno, ma proveniente dal convento benedettino di Santa Vittoria in Matenano. La storia del santo, già raccontata dalla Vie de Saint Alexis, è una storia esemplare di un uomo che incarna e rappresenta una vera e propria virtù vivente.


Testimonio di una ricca tradizione culturale e letteraria monastica, questo ritmo, che risale alla fine del secolo XII, è contenuto nel manoscritto Codice 552, 32, della Biblioteca dell'abbazia di Montecassino, vera capitale linguistica, culturale ed economica del territorio posto fra Lazio, Campania e Abruzzo, una roccaforte della cultura occidentale all'incrocio fra molte correnti latine, greche e longobarde. Si pensava in origine che tutte le stanze dovessero avere lo stesso numero di versi, e quindi che il testo presentasse numerose lacune; ma la scoperta del Ritmo di sant'Alessio ha fatto conoscere una forma strofica giullaresca composta in una serie non fissa di ottonari (o novenari) monorimi, chiusa da una coppia di endecasillabi. Pertanto oggi si ritiene ragionevolmente che il Ritmo cassinese non contenga lacune e che il senso sia sia compiuto e scorrevole. Il Ritmo, è opera di un autore indubbiamente colto, e lo dimostra l'uso di un linguaggio nel quale possiamo mettere in evidenza la presenza di provenzalismi (langue d'oc) e di latinismi. L'autore, rinchiuso in un convento, nel quale svolge le sue pratiche ascetiche, si fa interprete della vita, esprimendo quello che sa secondo le Sacre Scritture, con le quali si può esprimere bene, e si chiede come potrebbe condurre un uomo una vita regolare, visto che questo mondo è godibile e renderebbe miscredente ognuno: l'unico rimedio è di tenere bene a mente ciò che è scritto nella Scritture. Ogni cosa è fatta nel nome di Dio, ogni cibo o bevanda non è di questa terra, ma deve essere del regno celeste. Dopo un breve prologo, che serviva, secondo le regole retoriche classiche, ad attirare l'attenzione del lettore (captatio benevolentiae), sono posti in scena due personaggi: uno che viene dall'Oriente e un altro che viene dall'Occidente si scambiano proprio questo sapere. Il ritmo rappresenta l'incontro e il dialogo dei due personaggi, il Mistico, che viene dall'Oriente e espone il bene della vita monastica dedicata a Dio, al quale si chiede qualunque cosa serve e che si trova nelle Sacre Scritture, e un Tale, che viene dall'Occidente e rappresenta le caratteristiche della vita secolare, di quelli che "vivono nel secolo", non vivono cioè in conventi o monasteri, ma lavorano e mettono al mondo i figli. Ricordiamo a questo proposito che nel Medioevo possiamo distinguere tre grandi classi sociali: i bellatores (nobili che combattevano per tutti), gli orantes (preti e monaci che pregavano per tutti), e infine i laborantes (il popolo che lavorava per tutti, anche per mantenere gli orantes e i bellatores).


Elegia giudeo-italiana


Dal­l'ambiente giudaico dell'Italia centrale, come dimostrano gli elementi linguistici, proviene L’Elegia giudeo-italiana (fine XII-inizi XIII secolo), in ter­zine monorime di 120 versi di natura non sempre ben definibi­le e conservato in un codice trecentesco del tempio israeli­tico di Ferrara (e una copia si trova a Parma), in caratteri ebraici. L'elegia fu scritta per il digiuno del mese di Ab. Si lamenta la distruzione e la disperazione del popolo ebraico. Al centro vi è un racconto di due giovani fratelli, nobili e ric­chi finiti in pessima schiavitù; ed infine si prega Dio perché guar­di con volto benevolo il suo popolo.
Pur se ridotta a soli tre versi, bisognerà ricordare la Passione cassinese (forse della fine del secolo XII), bre­ve frammento di lamento della Vergine, inserito in una rappresentazione scenica in latino, un dramma di 317 ver­si sulla passione di Cristo. Così la didascalia che introdu­ce il planctus Virginis: 

«...Unde dolens beata vir[go qui] loquen[do la]troni et matri sue flenti numquam loquitur, cum ingenti cla[more i]psa bea[ta] vi[r]go vocat filium crucifixum et coram lor[icatis] ...mag...
...te portai nillu meu ventre,
quando te beio [mo]ro presente,
nillu teu regnu agime a mmente».


[Perciò lamentandosi la beata Vergine che (Cristo) parla al ladrone e non rivolge la parola a lei, sua madre che pian­ge, con grande clamore la beata Vergine chiama il suo figlio crocifisso e davanti ai soldati... (grida a gran voce): Ti ho portato nel mio ventre. Quando ti vedo, muoio subi­to. Nel tuo regno ricordati di me.]
Questi pochi versi sono il vagito della poesia sacra in vol­gare, che troverà il culmine nelle laude; e sono anche il pun­to di partenza per le sacre rappresentazioni; questo dram­ma deve essere considerato il più antico testo del genere in Italia, e forse il più antico della Chiesa d'Occidente. I doppi quinari sono probabilmente il resto di una quar­tina monorima di doppi quinari; la lingua reca le caratte­ristiche centro-meridionali (-u finali, raddoppiamento fono­sintattico, betacismo, la formaagime con l'affricata pala­tale, come l'attuale aggie «ho» campano, con finale indi­stinta; ma in passato aggio era letterario, di tipo siciliano); vente, di tipo nominativale (< venter), restituirebbe la rima perfetta.


Infine andranno almeno aggiunti, a quest'elenco non com­pleto:


La Formula di confessione umbra (1180 ca.). In questa for­mula paraliturgica, che il penitente doveva usare per pre­parare la confessione, sono passati in rassegna vari pecca­ti, in trasgressione dei comandamenti e dei precetti delia Chie­sa (digiuni, pagamento delle decime, ecc.). Fra le colpe possibili, apre uno spiraglio sulla vita comunale l'accusa con­tenuta in questo paragrafo: «Accusome dela sancta treva, k'io noll'observai sì ccomo promisi» [«Mi accuso della san­ta tregua che io non ho osservato, come avevo promesso»]. La formula si conclude con una invocazione in latino, in luo­go dell'assoluzione sacramentale. II codice che conserva il testo fu utilizzato e scritto nel monastero di Sant'Eutizio, presso Norcia. 


Il Contro navale pisano (tra la metà dell’XI e XII secolo): una carta che rispecchia la potenza economica e politica della repubblica marinara. È un conto in cui sono registrati dei pagamenti riguardanti forse la riparazione di alcune navi (più che la costruzione di una galea).



Il Libro dei banchieri fiorentini (1211), quaderno del dare ed avere di una ricca Firenze in espansione commerciale. Come si può vedere dall'elenco, i luoghi da dove ci provengono le testimonianze del volgare sono legati culturalmente alla dotta Montecassino (o ad altre abbazie) o sono le ricche e fiorenti città del centro Italia; ma anche in altri luoghi si tro­vano documenti di lingua, segno che il volgare era ormai nel­l’uso abituale della gente. Creatosi fin dagli inizi della nostra era, il volgare, da lingua quotidiana, si avviava a diven­tare anche lingua di letteratura.





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