Passa ai contenuti principali

La questione della lingua

Nel Quattrocento si era persa la memoria del De Vulgari Eloquentia di Dante, che sopravviveva in pochissimi esemplari. Fu Gian Giorgio Trissino a pubblicarlo per primo a stampa (guadagnandosi tra l'altro insulti e accuse di mistificazione).
Era il 1529 e in quei quattro anni erano state pubblicate opere che avevano incendiato il dibattito: quale italiano devono usare gli scrittori? 
Per la scelta di quale lingua utilizzare per la penisola italiana si cominciarono a formare tre correnti ognuna delle quali sosteneva un volgare diverso:
- la corrente detta cortigiana sosteneva di dover usare la lingua parlata nelle corti.
- la corrente bembiana sosteneva di dover usare il volgare fiorentino esemplaredi Petrarca e Boccaccio
- Sempre al modello fiorentino, ma a quello contemporaneo, si ispirava la posizione espressa da Niccolò Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua.

PER SAPERNE DI PIÙ:
Visto che la cosa vi interessava più del previsto e bisogna sempre fare riferimento a testi scientifici vi indico una pubblicazione che racconta la storia della pubblicazione del DVE e del discorso di Machiavelli: https://journals.openedition.org/studifrancesi/695?lang=fr
Se non vi basta potete leggere l’inizio della voce DVE nella enciclopedia dantesca della  Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/de-vulgari-eloquentia_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
Utile, ma forse troppo tecnico l’articolo di Corrado Bologna http://www.bibliotecamonselice.it/wp-content/uploads/2018/04/07.bologna-205-256.pdf


Corrente cortigiana


Trissino


Castiglione

Corrente bembiana 

Pietro Bembo (ovviamente)

Punto di svolta rappresentò la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, il quale seppur veneziano di nascita, propose come lingua il toscano trecentesco, lingua letteraria per eccellenza, punto di comunicazione tra gli autori del passato e i posteri. Nel terzo libro del suo trattato egli redasse una vera e propria grammatica del toscano letterario, fondato essenzialmente sull'uso dei grandi autori trecenteschi: Dante, ma soprattutto Boccaccio e Petrarca, di cui Bembo possedeva tra l'altro l'autografo del Canzoniere.
La questione si risolse di fatto con l'affermazione del modello bembiano, e quindi con la sanzione della lingua letteraria toscana. Dante venne escluso dal canone degli autori che facevano testo in materia di lingua in quanto il lessico del poeta era più vasto e meno riapplicabile; egli, inoltre, utilizzava vocaboli ora di livello alto ora di livello basso 


Corrente del fiorentino d'uso

Niccolò Machiavelli  Discorso intorno alla nostra lingua (estratti)
La cagione per che io abbia mosso questo ragionamento, è la disputa, nata più volte ne' passati giorni, se la lingua nella quale hanno scritto i nostri poeti e oratori fiorentini, è fiorentina, toscana o italiana. Nella qual disputa ho considerato come alcuni, meno inonesti, vogliono che la sia toscana; alcuni altri, inonestissimi, la chiamono italiana; e alcuni tengono che la si debba chiamare al tutto fiorentina; e ciascuno di essi si è sforzato di difendere la parte sua; in forma che, restando la lite indecisa, mi è parso in questo mio vendemmiale negozio scrivervi largamente quello che io ne senta, per terminare la quistione o per dare a ciascuno materia di maggior contesa […]
Parlare comune d'Italia sarebbe quello dove fussi più del comune che del proprio d'alcuna lingua; e similmente, parlar proprio fia quello dove è più del proprio che di alcuna altra lingua; perché non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza avere accattato da altri, perché, nel conversare gli uomini di varie provincie insieme, prendono de' motti l'uno dell'altro. Aggiugnesi a questo che, qualunque volta viene o nuove dottrine in una città o nuove arti, è necessario che vi venghino nuovi vocaboli, e nati in quella lingua donde quelle dottrine o quelle arti son venute; ma riducendosi, nel parlare, con i modi, con i casi, con le differenze e con gli accenti, fanno una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua che trovano, e così diventano suoi; perché, altrimenti, le lingue parrebbono rappezzate e non tornerebbono bene. E così i vocaboli forestieri si convertono in fiorentini, non i fiorentini in forestieri; né però diventa altro la nostra lingua che fiorentina. E di qui dipende che le lingue da principio arricchiscono, e diventono più belle essendo più copiose; ma è ben vero che col tempo, per la moltitudine di questi nuovi vocaboli, imbastardiscono e diventano un'altra cosa; ma fanno questo in centinaia d'anni; di che altri non s'accorge se non poi che è rovinata in una estrema barbaria[…] Ma lasciando stare questa parte come non necessaria, per non essere la nostra lingua ancora nella sua declinazione, e tornando donde io mi partii, dico che quella lingua si può chiamare comune in una provincia, dove la maggior parte de' suoi vocaboli con le loro circustanze non si usino in alcuna lingua propria di quella provincia; e quella lingua si chiamerà propria, dove la maggior parte de' suoi vocaboli non s'usino in altra lingua di quella provincia. Quando questo che io dico sia vero (che è verissimo) io vorrei chiamar Dante, che mi mostrasse il suo poema; e avendo appresso alcuno scritto in lingua fiorentina, lo domanderei qual cosa è quella che nel suo poema non fussi scritta in fiorentino. E perché e' risponderebbe che molte, tratte di Lombardia, o trovate da sé, o tratte dal latino.... Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire "egli disse" ed "io risposi", noterò gl'interlocutori davanti. N. Quali traesti tu di Lombardia? D. Questa: In co del ponte presso a Benevento; e quest'altra: Con voi nasceva e s'ascondeva vosco. N. Quali traesti tu dai Latini? D. Questi, e molti altri: Transumanar significar per verba. N. Quali trovasti da te? D. Questi: S'io m'intuassi come tu ti immii. Li quali vocaboli, mescolati tutti con li toscani, fanno una terza lingua. N. Sta bene. Ma dimmi: in questa tua opera come vi sono di questi vocaboli o forestieri o trovati da te o latini? D. Nelle prime due Cantiche ve ne sono pochi, ma nell'ultima assai, massime dedotti da' latini, perché le dottrine varie di che io ragiono, mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere; e non si potendo se non con termini latini, io gli usavo, ma li deducevo in modo, con le desinenze, ch'io gli facevo diventare simili alla lingua del resto dell'opera.
N. Che lingua è quella dell'opera? D. Curiale. N. Che vuol dir curiale? D. Vuol dire una lingua parlata dagli uomini di corte, del papa, del duca i quali, per essere uomini litterati, parlono meglio che non si parla nelle terre particulari d'Italia.
N. Tu dirai le bugie. Dimmi un poco: che vuol dire, in quella lingua curiale, morse? D. Vuol dire morì.
N. In fiorentino, che vuol dire? D. Vuol dire strignere uno con i denti.  […]
N. Adunque parli tu in fiorentino, e non cortigiano. N. Dimmi: tu di' ancora, volendo dire le gambe, E quello che piangeva con le zanche, perché lo di' tu? D. Perché in Firenze si chiamono zanche quelle aste sopra le quali vanno gli spiritelli per san Giovanni, e perché allora e' l'usano per gambe; e io, volendo significare gambe, dissi zanche.
 Pertanto io concludo che molte cose sono quelle che non si possono scriver bene senza intendere le cose proprie e particolari di quella lingua che è più in prezzo e volendoli proprii, conviene andare a la fonte donde quella lingua ha auto origine, altrimenti si fa una composizione dove l'una parte non corrisponde all'altra. E che l'importanza di questa lingua nella quale e tu, Dante, scrivesti, e gli altri che vennono e prima e poi di te hanno scritto, sia derivata da Firenze, lo dimostra esser voi stati fiorentini e nati in una patria che parlava in modo che si poteva, meglio che alcuna altra, accomodare a scrivere in versi e in prosa. A che non si potevano accomodare gli altri parlari d'Italia. Perché ciascuno sa come i Provenzali cominciarono a scrivere in versi; di Provenza ne venne quest'uso in Sicilia e, di Sicilia, in Italia; e, intra le provincie d'Italia, in Toscana; e di tutta Toscana, in Firenze, non per altro che per esser la lingua più atta. Perché non per commodità di sito, né per ingegno, né per alcuna altra particulare occasione meritò Firenze esser la prima, e procreare questi scrittori, se non per la lingua commoda a prendere simile disciplina; il che non era nell'altre città. E che sia vero, si vede in questi tempi assai Ferraresi, Napoletani, Vicentini e Viniziani, che scrivono bene e hanno ingegni attissimi allo scrivere; il che non potevano far prima che tu, il Petrarca e il Boccaccio, avessi scritto. Perché a volere ch'e' venissino a questo grado, disaiutandoli la lingua patria, era necessario ch'e' fussi prima alcuno il quale, con lo esemplo suo, insegnassi com'egli avessino a dimenticare quella lor naturale barbaria nella quale la patria lingua li sommergeva. Concludesi, pertanto, che non c'è lingua che si possa chiamare o comune d'Italia o curiale, perché tutte quelle che si potessino chiamare così, hanno il fondamento loro dagli scrittori fiorentini e dalla lingua fiorentina; alla quale in ogni defetto, come a vero fonte e fondamento loro, è necessario che ricorrino; e non volendo esser veri pertinaci, hanno a confessar la fiorentina esser questo fondamento e fonte. Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere, e si partì, e io mi restai tutto contento, parendomi d'averlo sgannato. Non so già s'io mi sgannerò coloro che sono sì poco conoscitori de' beneficii ch'egli hanno auti dalla nostra patria, che e' vogliono accomunare con essa lei nella lingua Milano, Vinegia e Romagna, e tutte le bestemmie di Lombardia.

Commenti

Post popolari in questo blog

Cosa vuol dire: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus"

La soluzione, la dà lo stesso Umberto Eco nelle "Postille a Il nome della rosa ": «Bernardo varia sul tema dell' ubi sunt (da cui poi il mais où sont les neiges d'antan di François Villon ) salvo che Bernardo aggiunge al topos corrente (i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse, tutto svanisce nel nulla) l'idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi». Quella di Eco è una spiegazione volutamente sintetica e alla fine si ha l'impressione di non aver capito bene il senso delle ultime parole di Adso. La soluzione, ovviamente la troviamo anche su wikipedia , ma è una soluzione troppo dettagliata e tecnica e alla fine si ha l'impressione di non aver capito niente delle senso delle parole di Adso. In questi casi la cosa migliore da fare è controllare la fonte. Pazienza se è in latino. Caesar et nudus es et prope nullus es; O ferus ille! Nunc ubi Marius atque Fabricius, inscius auri? Mors ubi nobilis et mem

Testo argomentativo sul Decameron

"“ Il Decameron fissa un livello stilistico tale per cui le novelle, ossia racconti realistici, diventano un puro intrattenimento, degno di un pubblico di aristocratici e di uomini colti" Composizione guidata: La tesi di Auerbach afferma due cose: che il Decameron era apprezzato da un pubblico colto e che per la prima volta un pubblico colto apprezzava il genere della novella (che è l’antesignana dei moderni romanzi). Per validare la tesi, in questo saggio ci si concentra su tre argomenti: 1) Lo stile 2) I narratari 3) L’atmosfera della cornice 1.1 Riguardo al livello stilistico si può dire che il Decameron è..: 1.2 Lo stile di Boccaccio è…… (si parla delle simmetrie nella struttura, ordine delle parole della frase… i periodi e si fanno esempi) 1.3 Il ruolo della prosa nel Trecento… (Era per specialisti. Fare esempi di opere in prosa: de Vulgari eloquentia, prosa scientifica o teologica in latino vista all’inizio dell’anno, libri di Stor

Dante nella “Commedia”: doppio ruolo, duplice scopo

Il testimone/autore che ha “visto”, “compreso” e rende lode e il pellegrino/personaggio che indica la “strada” percorrendola insieme al lettore. di Claudio Mengarelli  Nel periodo che segue la morte di Beatrice, Dante ha un “profondo smarrimento” che lo porta a riflettere sul senso della vita. Utilizza, quindi, la figura retorica dell’allegoria, con la quale un concetto viene evidenziato attraverso un'immagine che ne “sintetizza/illustra” il senso, per produrre un'opera in cui esprime le sue idee le sue riflessioni e la sua visione del mondo. Visualizza tutto questo come un viaggio di sette giorni, attraverso i tre Regni metafisici, a cui si rifà la teologia Cristiana, per inquadrare la vita ultraterrena, in attesa del Giudizio Universale: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Il suo è un viaggio di salvezza che conduce dall’oscurità alla luce, dallo smarrimento (la selva oscura), alla comprensione degli errori compiuti, dal male al bene, dalla bestialità dell’uomo (l