Tra latino e italiano: i primi documenti in volgare (da Luzappy.eu e altri)
La frantumazione politica dell’Impero romano non distrusse la cultura latina, intesa qui come lingua quotidiana; aggiunse invece elementi nuovi, per trasformare sempre più, nonostante la volontà frenante della scuola e dei grammatici, il sistema linguistico. Anche i Longobardi furono veicolo di novità, fin quando nel 774 Carlo Magno li sconfisse, per poi rifondare l’impero, volendo ricomporre l’unità politica, religiosa, culturale (e, perciò, linguistica). Ma una lingua non si impone; il popolo, disperso nelle campagne dei feudatari o accolto nelle corti, continuò a sentire sempre più incomprensibile il latino, che proprio per la riforma carolingia, diventava «altra lingua» rispetto a quella parlata dalle masse ed ormai era soltanto la lingua ufficiale della Chiesa e del Palazzo imperiale.
Il Concilio di Tours (813) prese coscienza della diversità della lingua del popolo, quando raccomandò ai vescovi la predicazione dicendo che «easdem omilias quisque aperte transferre studeat in rusticam linguam aut thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur»; e già nell’842, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, successori di Carlo Magno, giuravano davanti ai loro soldati vicendevole aiuto. Con i cosiddetti Giuramenti di Strasburgo abbiamo il primo documento romanzo: non latino aureo, non latino volgare, ma semplicemente volgare: la lingua che il volgo parlava, che era nata dal latino, diventava anche una lingua scritta.
I giuramenti di Strasburgo
Primo
documento ufficiale in cui accanto al latino è presente la lingua volgare. L’occasione
è data dall’incontro tra l’esercito franco comandato da Carlo il Calvo e quello di suo fratello Ludovico il Germanico. È il 14 febbraio 842 e i due nipoti di Carlo Magno si ritrovano nella
città dell’Alsazia per stringere alleanza contro il primogenito Lotario. Quel giorno i condottieri sono
accompagnati dai loro eserciti che, assistendo alla pronuncia del patto, ne
diverranno i veri testimoni. La preoccupazione è quindi che i soldati possano
comprendere facilmente e in maniera completa il contenuto dell’accordo. La
molla che convince i cancellieri dei due sovrani a rinunciare al latino, fino
ad allora unica lingua ufficiale per la stesura di atti pubblici, è infatti
unicamente pratica. I soldati dovranno disubbidire al proprio signore, nel caso
in cui quest’ultimo comandi azioni sleali nei confronti dell’alleato. La
decisione di accantonare il latino, a favore delle due lingue volgari parlate
dagli eserciti, porta Ludovico il Germanico a pronunciare il giuramento in romana lingua - una parlata di base francese
o franco-provenzale comprensibile agli uomini di Carlo, provenienti dalle varie
regioni del suo dominio -, e il secondo in lingua
teudisca, identificata con una varietà del francone renano. A questi
cancellieri bisogna riconoscere il merito di aver compreso per primi in maniera
piena l’importanza di lingue fino ad allora non codificate, ma che ormai hanno
una propria forma autonoma e separata dal latino. L’esigenza concreta di far
comprendere anche a uomini illetterati i termini dell’accordo politico ci offre
la testimonianza tangibile dell’ormai irreversibile cambiamento avvenuto: il
latino è soltanto più la lingua dei libri. La formula giuridica usata per il
giuramento, sapientemente scritta sulla scia dei formulari latini, è giunta
fino a noi grazie a un manoscritto del X secolo, conservato alla Biblioteca
Nazionale di Francia.
Pro
deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, d'ist di in avant,
in quant deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo et
in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dist, in o
quid il mi altresi fazet, et ab Ludher nul plaid nunquam prindrai, qui meon vol
cist meon fradre Karle in damno sit.
Si
Lodhuvigs sagrament que son fradre Karlo iurat conservat et Karlus meos sendra
de suo part non lo tanit, si io returnar non l'int pois: ne io ne neuls cui eo
returnar int pois in nulla aiudha contra Lodhuvig nun li iu er.
Attestazione della molteplicità di lingue in Occidente, ci viene dal Libro delle strade e delle province, opera araba di geografia scritta tra l’844 e l’848: «Questi mercanti [occidentali] parlano l’arabo, il persiano, la lingua dei Romani, la lingua di Francia, quella di Spagna e lo slavo»: due lingue romanze sono considerate «lingue di mercato».
Anteriore ai Giuramenti di Strasburgo, è l’Indovinello veronese, uno dei primi esempi di volgare italiano.
Indovinello veronese
II
più noto dei primi documenti del volgare italiano fu scoperto dal paleografo
Luigi Schiapparelll nel 1924, in calce a un codice - datato fra la fine del
VIII secolo e l'inizio del IX- della Biblioteca Palatina di Verona, onde il
nome assegnatogli di Indovinello
veronese. Da allora, filologi e linguisti non hanno cessato di formulare
questioni e congetture, in particolare sul grado di volgarismo cosciente del
breve testo, sul suo eventuale colorito veneto-friulano, sulla sua struttura in
esametri o altro metro. Si è molto discusso sull'interpretazione del se pareba. Se pareba sta per parebant,
allora boves è soggetto del quattro
verbi, e la lettura sarà: «I buoi [le dita] apparivano (venivano avanti),
aravano un bianco prato [la pergamena], reggevano un bianco aratro [la penna],
seminavano nero seme [l'inchiostro]». Se
pareba sta per parabat, il
soggetto sottinteso è chi scrive, e la lettura sarà: «Si spingeva avanti [se = sibi,
dativo etico] i buoi, arava un bianco prato, reggeva un bianco aratro, seminava
nero seme». La seconda lettura è la più accreditata, perché lo «spingere innanzi
i buoi» è coerente con la metafora rustica dell'«arare» e perché intendere
l'amanuense come soggetto sottinteso si addice di più alla natura
dell'Indovinello: una delle formule, in chiave scherzosamente enigmistica, che
i chierici copisti mettevano in fondo ai codici, compiacendosi della fatica
compiuta.
Placito capuano. Il primo documento in volgare
italiano
...poi in mezzo a carte notarili compare una testimonianza sicuramente in italiano
Marzo 960: Placito cassinese di Capua
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.
Marzo 963: Placito cassinese di Sessa
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.
Luglio 963: Placito cassinese di Teano
Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie.
Ottobre 963: Placito cassinese di Teano
Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.
«Sao ko kelle
terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti
Benedicti». Con questa formula, nel marzo
del 960 fu risolta una lite tra il monastero di Montecassino ed un uomo di Aquino. Tre testimoni, comparsi a Capua davanti al giudice Arechisi, tenendo
una carta in cui erano segnati i confini del luogo discusso e
toccandola con l'altra mano, deposero a favore del monastero. Vera o fittizia
che sia stata la lite (è sembrato, infatti, a taluni che fosse preoccupazione
dall'abate avere una carta notarile in cui si dichiarasse il possesso
trentennale di quelle terre), il documento di Arechisi registra l'atto di
nascita della lingua italiana scritta, pur se in una varietà dialettale, in cui
il tratto più appariscente è la sparizione dell'appendice labio-velare u in ko (latino quod), kelle, ki (italiano quelle, qui; ma resta in que).
La coscienza che il volgare fosse lingua
autonoma stava conquistando l'Italia; infatti, dopo il 960, la mappa geografica
delle testimonianze incomincia a registrare punti nuovi, sui quali si appoggia
la storia della lingua italiana. Formule simili a quelle della carta capuana
furono trascritte nel 963 a Sessa Aurunca
e poi a Teano. Parole isolate e
stilemi si ritrovano negli scritti dei dotti e, molto più, dei notai. Non mancano,
inoltre, i glossari, a volte di poche parole, in cui i singoli lemmi volgari
sono affiancati dalla corrispondente traduzione (latina, greca). La certezza
della diffusa nuova coscienza linguistica ci viene dall'aneddoto narrato da
Gunzo di Novara. Nel 965, di passaggio a San Gallo, egli, maestro e grammatico
di fama, mentre seduto a mensa chiacchierava, fece un errore, «ponendo videlicet accusativum pro ablativo».
Un monachetto subito lo assalì, riprendendolo aspramente e giudicandolo degno
della sferza, molto in uso allora nelle scuole. Ritornato in patria, Gunzo scrisse
una lettera ai monaci di Reichenau, quasi per giustificarsi dell’errore,
accumulando pagine di classici che avevano usato un caso per l'altro, e,
giustificazione estrema, esclamò: «Falso
putavit S. Galli monachus me remotum a scientia grammaticae artis, licet
aliquando retarder usu nostrae vulgaris linguae, quae latinitati vicina est»:
il suo errore era stato causato dall'uso quotidiano del volgare, lingua simile
al latino. L'uso del volgare, inoltre, è espressione di lode sull'epitaffio di
Gregorio V (999): «Usus francisca,
vulgari et voce latina; instituit populos eloquio triplici».
Col passare del
tempo, in tutte le parti d'Italia vi sono documenti e testi scritti
interamente o parzialmente in volgare. Fra queste testimonianze: L'Iscrizione della catacomba di
Commodilla in Roma (metà del secolo IX). È un graffito: «Non
dicere ille secrita a.bboce» [«Non dire quelle cose segrete a voce (alta)»].
Con questa formula si invitava il celebrante a non recitare a voce alta quelle
preghiere della messa, dette secrete. Dal punto di vista linguistico si noti, oltre alla forma
dell'imperativo negativo (non + infinito) diversa da quella latina (ne
diceas, con congiuntivo esortativo), dicere, volgare a Roma, dove s'è usato in modo esclusivo per tutto il
medioevo; ille con valore di articolo femminile plurale e secrita, non
neutro, ma un plurale in -a (l'articolo
sarebbe la conferma); a-bboce, con raddoppiamento fonosintattico e
betacismo.
La Postilla
amiatina (San Salvatore di Monte Amiata, non molto distante da
Grosseto; 1087): «Ista cartula est de caput coctu. / Ille adiuvet de illl[u]
rebottu / qui mal consiliu li mise in corpu». Tre versi (forse endecasillabi),
con assonanza, misti di latino e volgare, scritti dallo stesso notaio che
redasse la cessione dei beni fatta da Micciarello e la moglie, Gualdrada, in
favore dell'abbazia di San Salvatore. Controverso è il significato della
postilla. La donazione sarebbe stata fatta per evitare guai, e magari
sortilegi (la Postilla sembra un breve, un talismano), che un mal
consiliu di rebott/u/ (il diavolo? un avversario? un «consigliere
fraudolento»?) poteva procurare a caput coctu (o Caput-coctu «testa-cotta», evidente soprannome).
Qualcuno pensa anche ad una donazione fittizia, per evitare aggravi fiscali
(il «mal consiglio» sarebbe dunque la frode). Per la lingua, si possono mettere
in evidenza almeno le finali in -u.
L'Iscrizione di San Clemente (fine XI
secolo). Si tratta di un affresco, che si trova nella Basilica di San Clemente
a Roma. Due personaggi, Albertello e Gosmari, trascinano una colonna, mentre
un terzo, Carboncello, la spinge; Sisinnio, un patrizio romano, sta in atto di
chi comanda. Accanto ai protagonisti sono scritte brevi frasi. La colonna
tirata ricorda il miracolo avvenuto durante il martirio del Santo, come riporta
la Passio. San Clemente si esprime in latino, quasi con le parole della
tradizione, mentre gli altri personaggi usano il volgare: «Sisinium:
"Fili dele pute, tràite". Gosmarius: "Albertel, trai".
"Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle". (San Clemente:)
"Duritia(m) cordis vestri(s), saxa traere meruistis"». Le parole di Clemente spiegano perché egli è
rappresentato con un sasso. Già nel latino si osservi la necessità di espunzione in duritiam e
vestris, e la mancanza dell'h
in trahere (e si dovrebbe anche trovare Sisinius, al nominativo),
segno che chi scrisse aveva scarsa conoscenza del latino. Per lo stile, nelle
frasi in volgare, si rilevi il realistico insulto di Sisinnio, che parla non
da patrizio ma da vero popolano (nonostante l'affresco sia in una chiesa e
l'argomento sacro); e si noti ancora Albertel, con forma troncata com'è
nell'uso parlato; e, in Carvoncelle, la B > v, oltre alla -e finale (non vocativo).
La Testimonianza di Travale (oggi
in provincia di Grosseto; 6 luglio 1158): anche questo testo si trova in un
documento giudiziario, scritto in latino; in esso appare la seguente frasetta,
pronunciata da Malfredo: «Guaita, guaita male; non mangia ma mezo pane». Ed
anche in questo testo le interpretazioni sono varie: «Guardia, fa' la guardia
male! Io non mangiai mai mezzo pane», come un invito imperativo, rivolto a se
stesso (questa è l'ipotesi più accettata); oppure: «La guardia fa male la guardia.
Io ecc.», come narrativo. Qualche studioso ha pensato che il testo possa essere
l'inizio di un ritmo giullaresco; qualcuno ancora che Malfredo abbia camuffato
il proprio disagio sotto quelle parole, per far capire ai signori che non
faceva volentieri, data la sua estrema indigenza, il servizio di guardia; tanto
che, capita l'antifona, egli venne dispensato dal servizio. In poche parole:
Malfredo era obbligato al servizio di guardia alla corte di Travale, ma era
talmente povero che faceva male il suo turno, perché affamato.
I primi ritmi della letteratura italiana
II Ritmo bellunese, datato intorno al 1193, ma
tramandatoci da un codice cinquecentesco, è formato da quattro versi di una
cronaca dell'occupazione del castello di Mirabello da parte delle truppe di
Belluno e Feltre ai danni di Treviso. Altri brevi documenti di una lingua di
più ampio respiro, provenienti sicuramente dal mondo giullaresco, sono il Ritmo
laurenziano (1157), il Ritmo su
Sant’Alessio e il Ritmo cassinese.
II primo, conservato in un unico manoscritto presso la Biblioteca Medicea
Laurenziana, è stato trascritto per la prima volta da Angelo Maria Bandini a Firenze
nel 1777. Vede protagonista un giullare che loda alcuni alti prelati per
ottenere doni da loro, primo fra tutti un cavallo. La struttura metrica e
retorica dimostrano la buona cultura del giullare compositore, rimandando
direttamente alla poesia d'oltralpe.
Gli altri due componimenti sono accomunati dall'imitazione dello stile
giullaresco applicato in questo caso ad argomento
religioso. II Ritmo cassinese, custodito in un
manoscritto dell'XI secolo dell’Abbazia di Montecassino, è stato pubblicato
per la prima volta a Napoli nel 1791, mentre solo nel secolo successivo sono
iniziati seri tentativi di una sua edizione critica. Si tratta del dialogo tra un monaco occidentale e uno orientale,
in cui sono contrapposti I piaceri
terreni alla vita dello spirito. II Ritmo su Sant’Alessio,
invece, è stato trascritto da due differenti copisti su un manoscritto
conservato presso la Biblioteca Comunale dl Ascoli Piceno, ma
proveniente dal convento benedettino di Santa Vittoria in Matenano. La storia
del santo, già raccontata dalla Vie de
Saint Alexis, è una storia esemplare di un uomo che incarna e rappresenta
una vera e propria virtù vivente.
Testimonio di una ricca
tradizione culturale e letteraria monastica, questo ritmo, che risale
alla fine del secolo XII, è contenuto nel manoscritto Codice 552, 32, della
Biblioteca dell'abbazia di Montecassino, vera capitale linguistica, culturale
ed economica del territorio posto fra Lazio, Campania e Abruzzo, una roccaforte
della cultura occidentale all'incrocio fra molte correnti latine, greche e
longobarde. Si pensava in origine che tutte le stanze dovessero avere lo stesso
numero di versi, e quindi che il testo presentasse numerose lacune; ma la
scoperta del Ritmo di sant'Alessio ha fatto conoscere una forma strofica
giullaresca composta in una serie non fissa di ottonari (o novenari) monorimi,
chiusa da una coppia di endecasillabi. Pertanto oggi si ritiene ragionevolmente
che il Ritmo cassinese non contenga lacune e che il senso sia sia
compiuto e scorrevole. Il Ritmo, è opera di un autore indubbiamente colto, e lo
dimostra l'uso di un linguaggio nel quale possiamo mettere in evidenza la
presenza di provenzalismi (langue d'oc) e di latinismi. L'autore,
rinchiuso in un convento, nel quale svolge le sue pratiche ascetiche, si fa
interprete della vita, esprimendo quello che sa secondo le Sacre Scritture, con
le quali si può esprimere bene, e si chiede come potrebbe condurre un uomo una
vita regolare, visto che questo mondo è godibile e renderebbe miscredente
ognuno: l'unico rimedio è di tenere bene a mente ciò che è scritto nella
Scritture. Ogni cosa è fatta nel nome di Dio, ogni cibo o bevanda non è di
questa terra, ma deve essere del regno celeste. Dopo un breve prologo, che
serviva, secondo le regole retoriche classiche, ad attirare l'attenzione del
lettore (captatio benevolentiae), sono posti in scena due personaggi:
uno che viene dall'Oriente e un altro che viene dall'Occidente si scambiano
proprio questo sapere. Il ritmo rappresenta l'incontro e il dialogo dei
due personaggi, il Mistico, che viene dall'Oriente e espone il bene
della vita monastica dedicata a Dio, al quale si chiede qualunque cosa serve e
che si trova nelle Sacre Scritture, e un Tale, che viene dall'Occidente
e rappresenta le caratteristiche della vita secolare, di quelli che
"vivono nel secolo", non vivono cioè in conventi o monasteri, ma
lavorano e mettono al mondo i figli. Ricordiamo a questo proposito che nel
Medioevo possiamo distinguere tre grandi classi sociali: i bellatores
(nobili che combattevano per tutti), gli orantes (preti e monaci che
pregavano per tutti), e infine i laborantes (il popolo che lavorava per
tutti, anche per mantenere gli orantes e i bellatores).
Dall'ambiente
giudaico dell'Italia centrale, come dimostrano gli elementi linguistici,
proviene L’Elegia giudeo-italiana (fine XII-inizi
XIII secolo), in terzine monorime di 120 versi di natura non sempre ben definibile
e conservato in un codice trecentesco del tempio israelitico di Ferrara (e una
copia si trova a Parma), in caratteri ebraici. L'elegia fu scritta per il
digiuno del mese di Ab. Si lamenta la distruzione e la disperazione del popolo
ebraico. Al centro vi è un racconto di due giovani fratelli, nobili e ricchi
finiti in pessima schiavitù; ed infine si prega Dio perché guardi con volto
benevolo il suo popolo.
Pur se ridotta a
soli tre versi, bisognerà ricordare la Passione
cassinese (forse della fine del secolo XII), breve frammento di
lamento della Vergine, inserito in una rappresentazione scenica in latino, un
dramma di 317 versi sulla passione di Cristo. Così la didascalia che introduce
il planctus Virginis: «...Unde
dolens beata vir[go qui] loquen[do la]troni et matri sue flenti numquam
loquitur, cum ingenti cla[more i]psa bea[ta] vi[r]go vocat filium crucifixum et
coram lor[icatis] ...mag...
...te portai nillu meu ventre,
quando
te beio [mo]ro presente,
nillu
teu regnu agime a mmente».
[Perciò
lamentandosi la beata Vergine che (Cristo) parla al ladrone e non rivolge la
parola a lei, sua madre che piange, con grande clamore la beata Vergine chiama
il suo figlio crocifisso e davanti ai soldati... (grida a gran voce): Ti ho
portato nel mio ventre. Quando ti vedo, muoio subito. Nel tuo regno ricordati
di me.]
Questi pochi versi sono il vagito della
poesia sacra in volgare, che troverà il culmine nelle laude; e sono anche il
punto di partenza per le sacre rappresentazioni; questo dramma deve essere
considerato il più antico testo del genere in Italia, e forse il più antico
della Chiesa d'Occidente. I doppi quinari sono probabilmente il resto di una
quartina monorima di doppi quinari; la lingua reca le caratteristiche
centro-meridionali (-u finali,
raddoppiamento fonosintattico, betacismo, la forma agime con l'affricata palatale, come l'attuale aggie «ho» campano, con finale indistinta; ma in passato aggio era letterario, di tipo siciliano); vente, di
tipo nominativale (< venter), restituirebbe la
rima perfetta.
Infine andranno
almeno aggiunti, a quest'elenco non completo:
La Formula
di confessione umbra (1180 ca.). In questa formula
paraliturgica, che il penitente doveva
usare per preparare la confessione, sono passati in rassegna vari peccati, in
trasgressione dei comandamenti e dei precetti delia Chiesa (digiuni, pagamento
delle decime, ecc.). Fra le colpe possibili, apre uno spiraglio sulla vita
comunale l'accusa contenuta in questo paragrafo: «Accusome dela sancta treva,
k'io noll'observai sì ccomo promisi» [«Mi accuso della santa tregua che io non
ho osservato, come avevo promesso»]. La formula si conclude con una invocazione
in latino, in luogo dell'assoluzione sacramentale. II codice che conserva il
testo fu utilizzato e scritto nel monastero di Sant'Eutizio, presso Norcia.
Il Contro navale pisano (tra la metà dell’XI e XII secolo): una
carta che rispecchia la potenza economica e politica della repubblica
marinara. È un conto in cui sono registrati dei pagamenti riguardanti forse la
riparazione di alcune navi (più che la costruzione di una galea).
Il Libro dei banchieri fiorentini (1211), quaderno del
dare ed avere di una ricca Firenze in espansione commerciale. Come si può
vedere dall'elenco, i luoghi da dove ci provengono le testimonianze del volgare
sono legati culturalmente alla dotta Montecassino (o ad altre abbazie) o sono
le ricche e fiorenti città del centro Italia; ma anche in altri luoghi si trovano
documenti di lingua, segno che il volgare era ormai nell’uso abituale della
gente. Creatosi fin dagli inizi della nostra era, il volgare, da lingua
quotidiana, si avviava a diventare anche lingua di letteratura.
Storia della lingua italiana: dal Latino all’Italiano Di Diana Dragoni.
Vedere altre presentazioni del Delfina Colucci
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