Guido Guinizzelli
Caro padre meo, de vostra laude
non bisogna ch’alcun omo s’embarchi
ché ’n vostra mente intrar vizio non aude,
che for de sé vostro saver non l’archi.
A ciascun reo sì la porta claude,
che, sembr’, ha più via che Venezi’ ha Marchi;
entr’ a’ Gaudenti ben vostr’ alma gaude,
ch’al me’ parer li gaudii han sovralarchi.
Prendete la canzon, la qual io porgo
al saver vostro, che l’aguinchi e cimi,
ch’a voi ciò solo com’ a mastr’ accorgo,
ch’ell’ è congiunta certo a debel’ vimi:
però mirate di lei ciascun borgo
per vostra correzion lo vizio limi.
Guittone d’Arezzo
Figlio mio dilettoso, in faccia laude
non con descrezion, sembrame, m’archi:
lauda sua volonter non saggio l’aude,
se tutto laudator giusto ben marchi;
per che laudar me te non cor me laude,
tutto che laude merti e laude marchi:
laudando sparte bon de valor laude
legge orrando di saggi e non di Marchi.
Ma se che degno sia figlio m’acorgo,
no amo certo guaire a•tte dicimi,
ché volonteri a la tua lauda accorgo.
La grazia tua che «padre» dicimi,
ch’è figlio tale assai pago, corgo,
purché vera sapienzia a•ppoder cimi.
Bonagiunta Orbicciani
Voi ch’avete mutata la mainera
de li piagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era,
per avansare ogn’altro trovatore,4
avete fatto como la lumera,
ch’a le scure partite dà sprendore,
ma non quine ove luce l’alta spera,
la quale avansa e passa di chiarore.8
Così passate voi di sottigliansa,
e non si può trovar chi ben ispogna,
cotant’è iscura vostra parlatura.11
Ed è tenuta grave ’nsomilliansa,
ancor che ’l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scritura.
Chiaro Davanzati
Sì come il cervio che torna a morire
là ov'è feruto sì coralemente;
e 'l cecero comincia a rispaldire,
quando la morte venire si sente:
così facc'io, che ritorno a servire
a voi madonna, se mi val neiente;
e dicovi: servendo vo' morire,
pur che mi diate la morte sovente;
e s'io no-ll'ho, fo com'omo selvag[g]io:
ca nel cantare tanto si rimbaglia,
quand'ha rio tempo, ch'atende lo bono.
A vo, mia donna, lo mio core ingag(g)io
che lo tegnate, no date travaglia,
ché da voi tegno l'altra vita in dono.
La soluzione, la dà lo stesso Umberto Eco nelle "Postille a Il nome della rosa ": «Bernardo varia sul tema dell' ubi sunt (da cui poi il mais où sont les neiges d'antan di François Villon ) salvo che Bernardo aggiunge al topos corrente (i grandi di un tempo, le città famose, le belle principesse, tutto svanisce nel nulla) l'idea che di tutte queste cose scomparse ci rimangono puri nomi». Quella di Eco è una spiegazione volutamente sintetica e alla fine si ha l'impressione di non aver capito bene il senso delle ultime parole di Adso. La soluzione, ovviamente la troviamo anche su wikipedia , ma è una soluzione troppo dettagliata e tecnica e alla fine si ha l'impressione di non aver capito niente delle senso delle parole di Adso. In questi casi la cosa migliore da fare è controllare la fonte. Pazienza se è in latino. Caesar et nudus es et prope nullus es; O ferus ille! Nunc ubi Marius atque Fabricius, inscius auri? Mors ubi nobilis et mem
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